Un danno economico di circa 20 milioni all’anno, senza dimenticare i rischi legati alla diffusione incontrollata di varie patologie. Il tema della pirateria varietale, da anni un fenomeno dilagante della frutticoltura italiana, sarà approfondito a Macfrut (3-5 maggio Rimini Expo Centre), in un incontro in programma giovedì 4 maggio alle ore 13 nell’ambito del Salone del vivaismo (Promuovere le varietà in frutticoltura, tra attese messianiche e pirateria: un approccio realistico. Moderatore Daniele Bassi, Università di Milano, con gli interventi di Vincenzo Acquafredda, Trevisan & Cuonzo; Stefano Barbieri, Sicasov; Walter Guerra, Csaf Laimburg; Marco Pancaldi, Cav; Walter Pardatscher, Vog; Maurizio Ventura, Sun World).
Diffondere una nuova varietà costa circa 200 mila euro, come spiega Stefano Lugli, coordinatore del Salone del vivaismo e il pagamento di royalty (a pianta, a superficie o sul prodotto commercializzato) è condizione essenziale per garantire il proseguimento dei progetti di miglioramento genetico.
Come si svilupperà a Macfrut l’incontro sul tema della pirateria varietale?
Abbiamo coinvolto tutti i soggetti della filiera: quelli che operano nel campo della tutela e protezione delle varietà, esponenti del mondo vivaistico frutti-viticolo e aziende che hanno avuto esperienze dirette di pirateria. E si parlerà anche delle nuove esperienze di programmazione vivaistico-produttiva, come la formula a Club varietale, in uso soprattutto nelle mele, dove c’è un controllo di tutta la filiera.
Quali sono i numeri del vivaismo frutticolo?
Per dare una dimensione del fenomeno della pirateria varietale, le imprese del vivaismo frutticolo sono circa un migliaio per un valore della produzione annua di 300 milioni di euro (fonte Civi-Italia). Le piante da frutto finite in Italia sono annualmente 53 milioni, oltre a 48 milioni di portainnesti e 250 milioni di piante per la fragola. Più di un migliaio le varietà in circolazione.
Focalizziamo la problematica.
L’80% delle varietà disponibili sul mercato sono brevettate. Nonostante una legislazione comunitaria, istituita nel 1994 (legge 2100), che protegge le nuove varietà vegetali nella moltiplicazione e commercializzazione, c’è un problema di pirateria varietale. Il 20% delle varietà di frutta oggi è piratata, non rispetta il vincolo del brevetto comunitario. Un fenomeno che interessa prima di tutto i vivaisti, ma anche i produttori, parte commerciale, gdo. È un problema di filiera.
Quali sono le colture più colpite dagli illeciti?
I vivaisti possono produrre secondo due sistemi: uno, volontario, la certificazione genetico-sanitaria, soggetto a controlli pubblici a completa tracciabilità; l’altro, la Cac, è obbligatorio per chi fa attività vivaistica ma non garantisce piena tracciabilità. Il sistema di certificazione è diffuso nelle pomacee e nella fragola, dove raggiunge anche l’80%; molto meno nelle drupacee, dove arriva al 20%. È molto difficile che una varietà di melo brevettata e certificata possa andare incontro a forme di pirateria varietale. Molto più probabile che ciò avvenga con una varietà di pesco brevettata ma non certificata.
Ci sono aspetti delle organizzazioni delle filiere che tutelano i brevetti?
In Italia, come valore della produzione, solo il 30-40% di chi opera nel settore frutticolo è organizzato in filiera come Op. I soci sono vincolati rispetto a determinati obblighi, i più rispettano la tracciabilità. Inoltre, l’Ue dà incentivi sul rinnovo varietale dei nuovi impianti a chi aderisce alle Op, in sistemi di produzione tracciati. Fuori da questo contesto il controllo del sistema diventa difficile. E proprio qui il terreno fertile per la diffusione della pirateria varietale.
Che dire dei prodotti Club varietali?
Sfruttando al massimo le opportunità che dà la legge comunitaria sui brevetti, da una decina d’anni sono nati i club varietali nelle mele, kiwi, uva da tavola. Sono forme di integrazione verticale di tutta la filiera. Le aziende che hanno in mano i brevetti (i costitutori o i proprietari delle varietà) controllano passo dopo passo tutto il sistema. Ed è quasi impossibile andare incontro ad abusivismo varietale in queste forme di controllo.
Un progetto di Assosementi, Road to quality, che coinvolge aziende sementiere ma anche vivaisti e aziende agricole, sta adottando la blockchain: potrebbe essere una soluzione?
Può avere dei vantaggi, ma il sistema di certificazione attuale, che non è solo sanitario, ma anche genetico, a mio parere, è sufficiente. Il problema nasce quando il prodotto esce dall’azienda perché questa tracciabilità viene meno e diventa difficile risalire dai vari lotti non solo del produttore ma anche alla singola varietà, a parte le formule Club.
Oggi da più parti si invocano le Tea (tecniche di evoluzione assistita): come soluzione ai problemi clima e patogeni. Che scenario ci potrà essere se l’Ue dovesse sdoganare questa pratica genomica?
Interesserebbe in primis le società di breeding che creano innovazione e oggi sono aziende private. Sono metodi industriali che riproducono quello che la natura fa normalmente e non c’è alcuna attinenza con gli Ogm. Ci sarebbero vantaggi enormi: il primo sul risparmio dei tempi di ottenimento delle varietà. Oggi per sviluppare una pianta da frutto ci vogliono 15-20 anni: con le Tea i tempi si ridurrebbero a qualche anno. Secondo, le risorse da impiegare sarebbe almeno dimezzate. Terzo, i programmi di breeding avrebbero risposte veloci e risultati mirati su specifici target, come la resistenza a cambiamenti climatici e patogeni e il miglioramento della qualità del prodotto. Con le metodologie tradizionali, oggi si prova a creare innovazione ma si arriva a destinazione troppo tardi.
Non c’è il rischio che i player del vivaismo frutticolo possano non trovarsi preparati alle innovazioni genetiche?
Oggi il vivaismo ha ridimensionato il suo ruolo: prima era il vivaismo che proponeva le varietà, oggi sono le società di breeding internazionali che investono e hanno in mano la genetica e le nuove tecnologie. Il vivaista diventa un mero propagatore. Questo sta avvenendo in particolare con le varietà Club. E con le nuove biotecnologie questo divario sarà ancora più evidente. Non è un caso se oggi molte aziende del settore finanzino progetti di breeding, si sentono parte attiva della creazione. Siamo un Paese importante a livello frutticolo ma dipendiamo dall’estero dall’innovazione: l’80% della frutta coltivata in Italia è stata sviluppata da breeder non italiani. Chiamamolo pure mady in Italy.