Da trent’anni Ambruosi e Viscardi è un riferimento per la quarta (80% del business) e prima gamma (20%). L’azienda marchigiana è specialista su scarola, indivia riccia e spinaci ed è partner della gdo. Il sistema che ha sviluppato è un modello di sostenibilità: circa 1200 ettari di coltivazioni, autoproduzione fin dai vivai, colture in prevalenza sul territorio regionale, autosufficienza energetica. Un progetto di filiera chiusa che arriva oggi a trasformarsi praticamente interamente in produzione a residuo zero, come racconta Nicola Ambruosi, socio e dirigente dell’azienda.
Una serie di prodotti a foglia a residuo zero: quali e quando arriveranno sul mercato?
Abbiamo lanciato diversi prodotti: per la quarta gamma, radicchio, pan di zucchero, cuore di scarola, cuore di riccia, mista Poker; poi bietola, cicoria e verza da cuocere e un mix delle tre verdure che vanno in cottura; due sono i prodotti per la prima gamma, indivia riccia e scarola. Le forniture cominceranno in ottobre: sono prodotti per lo più invernali e tutti da pieno campo. Siamo quasi al 100% della nostra produzione a residuo zero: rimangono fuori solo gli spinaci, ma dopo questo test possiamo anche arrivare a quella coltura, che è un po’ più difficile per la peronospora.
Come ci siete arrivati?
Ci siamo dati un regolamento interno aziendale: dobbiamo avere un massimo del 33% di residui rispetto ai limiti di legge utilizzando un solo principio attivo (eccetto rame e zolfo). Da lì passare al residuo zero, certificato da Rina Italy, è bastato poco. Al residuo zero eravamo già arrivati prima: non lo avevamo lanciato perché a nostro parere il mercato non era pronto per accoglierlo, anche perché il bio veniva spinto molto.
Qual è il vantaggio del residuo zero?
A nostro parere il residuo zero è migliore perché non ha i costi del bio. Il nostro prodotto residuo zero ha un costo del 25-30% in più rispetto a quello standard. Abbiamo già accordi con diverse insegne nazionali, almeno tre per la distribuzione.
Perché la scelta a pieno campo? Stavate facendo dei test con l’idroponica.
L’idroponica oggi costa 33 euro al chilo sul banco, è un prodotto per una ristretta parte dei consumatori. Con il fuori campo abbiamo costi minori. Noi siamo specializzati su insalate adulte: facciamo quello che non fanno gli altri visto che per la quarta gamma propongono tutti baby leaf. Autoproduciamo tutto. Il residuo zero non ha prezzi eccessivi e può avere appeal. Abbiamo fatto delle indagini sull’idroponica anche in Spagna ma per noi significa produrre a costi di molto superiori al piano campo. Oggi solo i materiali per l’idroponica costano tra il doppio e il triplo. Non conviene, soprattutto per alcuni tipi di verdure: può funzionare per pomodori e lattughe, ma noi produciamo soprattutto spinaci, bietole e indivia.
Come sarà il packaging?
Il packaging sarà un pet 100 % riciclabile: la plastica oggi è insostituibile, non è necessario il compostabile.
L’azienda continua a investire poi nella sostenibilità.
Siamo partiti con l’energia rinnovabile in modo controcorrente: sui tetti degli stabilimenti abbiamo un impianto fotovoltaico per 1,8 Mw; abbiamo un impianto di proprietà per la produzione di biometano dagli scarti di produzione: i volumi sono 350 quintali di media al giorno. Siamo così autosufficienti per il 95% dell’energia elettrica; facciamo poi noi le consegne: abbiamo una flotta di 26 automezzi, che funzionano a metano, gassoso o liquido. Abbiamo efficientato le linee di produzione per il risparmio idrico: da un anno ne abbiamo installata una nuova e ammodernizzato le vasche di lavaggio per minore consumo di acqua.