La produzione, lavorazione e commercializzazione delle patate è la mission di Campania Patate, una O.P. che riunisce operatori delle regioni Campania, Abruzzo e Calabria. Giuseppe D’Aniello, che è il presidente della struttura, in questa intervista parla della sua storia familiare, ma anche di come osservando l’Europa stia puntando verso un più efficace category del segmento per valorizzare il prodotto con un’adeguata politica di marca
Campania Patate è innanzitutto una storia di famiglia …
Ciò è tanto vero che potrei dire che io sono nato in un campo di patate. La storia inizia con il nonno prima della guerra, poi è proseguita con mio padre e i suoi fratelli. Quando ero bambino ricordo che la mamma faceva i lavori in quelle che chiamavamo baracche, perché nel napoletano erano tutti piccoli produttori con piccoli appezzamenti di terreno. Noi facevamo la raccolta, la portavamo in questi magazzini-baracche e poi facevamo il confezionamento cucendo i sacchi a mano che andavamo a caricare nelle stazioni ferroviarie di Nocera, Pompei, Marigliano con destinazione Germania e Danimarca. L’unica cosa rimasta immutata da allora è che la sede si trova ad Angri in provincia di Salerno.
Come era la produzione allora?
L’aspetto più macroscopico che è cambiato dal punto di vista produttivo è la dimensione media delle coltivazioni. Se 40/50 anni fa nel napoletano l’unità di misura era il mq e c’erano appezzamenti anche solo di 3.000 mq. Oggi una superficie di 10 ettari, quindi di 100.000 mq, viene considerata da piccolo produttore. Per arrivare a essere considerati di media dimensione bisogna raggiungere i 30-40 ettari e, per i grandi operatori, i 100-200 ettari. I francesi però arrivano facilmente a dimensioni di 400-500 ettari. Questa è la tendenza generale nei principali paesi europei cui non possiamo non adeguarci.
Queste dimensioni si possono raggiungere non solo attraverso acquisizioni, ma anche attraverso forme di associazionismo
In effetti il tipo di crescita con aggregazioni dal basso ritengo che sia più congeniale al tipo di realtà sociale ed economica della nostra regione: non a caso in Campania ci sono 5 O.P., mentre nelle altre regioni in genere ce n’è una sola. A questo tipo di mentalità è da attribuire il motivo per cui non abbiamo ancora una Igp.
La prima forma di associazionismo locale data 1985, con una cooperativa nata nell’agro nocerino. Poi nel 2009, insieme a un gruppo di cooperative di produttori campani, mi sono fatto artefice della nascita di Campania Patate, che ha anche ricevuto il riconoscimento della Regione Campania, sebbene alcuni dei consociati siano abruzzesi e calabresi. Siamo una realtà da 150 mila quintali, in forte crescita, certificata dal CCPB di Bologna per il confezionamento e la vendita di patate biologiche.
Si può parlare di una vocazione regionale?
Anche se è poco comunicato, la Campania continua ad essere il primo produttore nazionale di patate, benché i volumi si siano dimezzati: oggi produciamo fra i 2 e i 2,5 milioni di quintali, rispetto ai 5 milioni di alcuni anni fa. Tuttavia l’Emilia Romagna, che produce circa 1,1 milioni di quintali, viene percepita come la principale realtà del Paese, grazie a vari fattori a cominciare da un migliore utilizzo delle filosofia cooperativistica e anche a una efficace comunicazione su marca e origine del prodotto, aspetti sui quali abbiamo cominciato a lavorare anche noi.
Ma è solo una questione di comunicazione o ci sono altri aspetti legati alle caratteristiche della patata?
L’ambito su cui stiamo investendo, per recuperare il terreno perso rispetto all’Emilia Romagna, riguarda la supply chain e, in particolare, i centri di stoccaggio che servono a distribuire su più mesi i picchi di produzione del periodo maggio-giugno. Questo vuol dire che i 2milioni e oltre di quintali di merce dobbiamo smaltirli sul mercato in un paio di mesi, con evidenti ricadute negative su prezzo di vendita e costi di logistica.
Stiamo perciò investendo nella fase di stoccaggio con celle di stoccaggio a ozono ed etilene, mediante le quali si evita la germogliazione del prodotto e lo si preserva dal carico batterico. Si inizia applicando l’ozono per 24-48 ore, dopodichè si introduce l’etilene. Il risultato è che il prodotto non germoglia per mesi. Grazie a questo possiamo evitare di applicare trattamenti chimici, come invece avviene in Francia dove è consentito, garantendo così una migliore qualità del prodotto.
A questo punto nella strategia però entra in gioco la comunicazione …
Non ancora perché a monte della comunicazione dal punto di vista della nostra strategia sta il discorso sulla destinazione d’uso del tubero, una caratterizzazione per niente valorizzata e conosciuta in Italia, ma che è assolutamente normale, per esempio, per il retailer e il consumatore britannico. Bisogna sapere infatti che la destinazione d’uso nasce dalla quantità di sostanza secca presente nel tubero. Più bassa è la quantità di acqua e più alta sarà, di conseguenza, la quantità di sostanza secca di prodotto. In pratica la patata risulterà sì un po’ più dura al taglio, ma nel contempo risulterà più buona e croccante se cucinata fritta. Al contrario se la percentuale di acqua si avvicina all’80%, la patata sarà più buona se cotta al forno oppure se preparata bollita, usandola nelle varie insalate.
Questa vostra ricerca di differenziazione varietale vi ha fatto ricorrere a un centro di eccellenza mondiale di genetica dei vegetali …
Siamo orgogliosi di essere approdati al Sasa (Science and Advice for Scottish Agriculture) un ente governativo per il risanamento e la custodia di vecchie varietà vegetali e quindi non solo patate: hanno infatti una banca dati dei semi che va indietro di centinaia di anni. Il Sasa ci è servito per riavere sulle tavole degli italiani la Patata Ricciona, un tipico cultivar campano che non vedevamo nei nostri piatti da 50anni, perché brutta a vedersi rispetto a nuovi cultivar provenienti dall’estero, anche se molto gustosa. Sasa ha svolto un lavoro simile a quello narrato nel film Jurassic Park, solo che invece di dinosauri parliamo di recupero del genoma della Patata Ricciona, inselvatichita da decenni di abbandono. A partire dal 2004 quando portammo in Scozia un certo quantitativo di ricciona selvatica rintracciata nella penisola sorrentina, i tecnici scozzesi hanno lavorato sul genoma ripulendolo da decenni di inselvaticamento. I primi tuberi risanati ci sono stati restituiti nel 2011. Oggi il seme viene moltiplicato per conto della O.P. Campania Patate a Brunico (BZ) presso la cooperativa produttori sementi della Val Pusteria, per poi distribuirlo ai produttori campani per la produzione.
Come reagisce la gdo, a fronte di questa vostra voglia di articolare meglio il category?
Tutte queste attività le svolgiamo in sintonia con la gdo dove riscontriamo diversi livelli di sensibilità a proposito del category che riteniamo essere un vantaggio per tutti perché aumentando il livello di soddisfazione del cliente aumentiamo le dimensioni della categoria. Il punto di partenza del progetto rimane pur sempre la nostra regione perché dobbiamo dare un reddito agli agricoltori che durante quattro mesi hanno portato il tubero a diventare patata. Ogni varietà ha un suo territorio di elezione che dobbiamo valorizzare con uno story telling adeguato e con il chiaro fine di evitare la competizione sul prezzo. Ecco che qui, infine, entra in gioco nel modo più efficace la comunicazione avendo sincronizzato tutta la filiera sulla patata campana in termini di origine, produzione, logistica, marca, comunicazione, vendita. Occorre cominciare da un attento studio sul naming, scegliendo nomi facilmente ricordabili che siano compatibili in tutta Europa. Per il mercato domestico è il caso della nostra Patata Fresca Campana o di Robertina, mentre per un uso più internazionale, Crisps4all in cui si nota un uso più attento della grafica. Bisogna prestare attenzione alla comunicazione on pack, all’advertising nei vari media e, infine, alla comunicazione nel pdv, cosa strategica per indirizzare il consumatore secondo i suoi reali bisogni. A tale proposito si veda ciò che accade in Inghilterra e Scozia, dove c’è uno scaffale ricco e ordinato, di facile lettura in funzione della destinazione d’uso. Ben vengano anche iniziative come l’Osservatorio dei Freschissimi di Future Mark, che vede Gdoweek e Fresh Point come media partner che serve anche a valorizzare presso la gdo queste differenze d’uso, con le quali evitare confusive sovrapposizioni fra prodotti che hanno diverse destinazioni.