Le mense biologiche piacciono. Piacciono alla pubblica amministrazione che ha imposto una soglia minima di Bio nella ristorazione pubblica (40%); piacciono ai consumatori che vogliono prodotti più sani. Piacciono ristoratoti perché è quello che chiede il mercato. Piacciono al ministero che sta lavorando ad una legge sulla ristorazione collettiva biologica.
Convincono un po’ meno i produttori che dal giro d’affari di circa 315 milioni di euro l’anno (il 10% de totale Bio nazionale) ottengono marini molto bassi e di certo molto inferiori a quelli garantiti dall’export.
Sicché, in soldoni, aumentano le mense Bio ma non si trovano i prodotti.
I numeri. Partiamo dai dati. Secondo il rapporto Biobank 2015 curato da Rosa Maria Bertino e Achille Mingozzi, in Italia sono censite 1.249 mense biologiche, che usano cioè prodotti certificati. Sono venute su come i funghi negli ultimi anni e, dal 2010 al 2014, la crescita su scala nazionale è stata del 43%.
Alcune regioni corrono più velocemente, come la Lombardia (che ne ha 224); il Veneto (192); l’Emilia Romagna (172) e la Toscana (123) che da sole costituiscono più della metà (il 56%) del mercato. Ma altre stanno cavalcando il trend. Si pensi ai boom registrati in Piemonte (+101%); Puglia (+188%); Lazio (+39%) e Friuli Venezia Giulia (+37%). [Clicca sull’immagine per ingrandirla]
Il caso Bologna. L’ultimo clamoroso ingresso nel mercato si è registrato nel corso di quest’anno scolastico con la conversione a Bio di tutte le mense scolastiche di Bologna (più di 5 milioni di pasti l’anno), a seguito dello scioglimento della Seribo, la società mista, pubblico privato (tra comune e Camst), che prima le gestiva e l’affidamento alla sola Camst del servizio esternalizzato per un risparmio per il comune di circa il 10%.
Nello stesso tempo si registra da più voci la difficoltà di reperire materia prima.
«Quest’estate – ci spiega Monica Faiolo, responsabile settore servizi alla persona del comune di Argelato (Bologna), che ha convertito al Bio tutte le mense scolastiche che usano solo prodotti certificati – c’è stato il problema con le fragole che non si trovavano e allora abbiamo dovuto optare per un altro frutto biologico magari meno apprezzato dai bambini. Per assicurarci che il fornitore acquisti la merce pattuita effettuiamo un’ispezione all’anno nella cucina centralizzata gestita dal centro di ristorazione che prevede due o te campionamenti».
Le criticità. Tra le cause di questi “gap” c’è il fatto che, da un lato, non sono ancora molti gli areali produttivi convertiti, dall’altro è anche vero che per i coltivatori è molto più redditizio l’export di Bio che non la fornitura alle scuole che deve sottostare alle dinamiche delle gare d’appalto realizzate al ribasso dei prezzi che regolano l’88% delle mense censite.
«Nel Bio – ha precisato Paolo Parisini, presidente della Federazione nazionale dell’agricoltura biologica di Confagricoltura – la domanda è più elevata dell’offerta. Si tratta di un settore particolare, soprattutto per l’ortofrutta che, proprio perché non è trattata, ha una durabilità minima sicché l’obiettivo di chi produce e vendere in fretta al miglior prezzo. L’impegno nazionale è quello di estendere le superfici certificate ma non è semplice perché c’è molta burocrazia che soffoca le aziende».
Il ministero. Di queste problematiche se n’è parlato nei giorni scorsi ad Expo, nel corso del convegno “Il bio nel piatto” che si è tenuto negli spazi della Cascina Triulza. In quest’occasione il presidente di Fedagri-Confcooperative, Giorgio Mercuri, ha chiesto alle istituzioni «un maggior impegno per semplificare le norme che regolano il settore e dare maggiore impulso all’introduzione di prodotti biologici nella ristorazione scolastica». Gli ha prontamente replicato la dirigente del Ministero delle Politiche Agricole Roberta Cafiero che dopo aver sottolineato che «il compito delle istituzioni è quello di far coincidere l’interesse pubblico con il minor sacrificio possibile da parte dei privati, per arrivare ad un obiettivo comune», ha annunciato che il Ministero sta lavorando ad una normativa nazionale che disciplinerò la ristorazione collettiva biologica».
Il progetto Aiab. Oltre all’eccesso di burocrazia, tra i punti che dovranno essere presi in esame – a detta degli operatori – vi è la definizione di “mensa Bio”, per capire quali caratteristiche sono richieste avere la certificazione.
«In Emilia-Romagna – spiega Daniele Ara, responsabile del progetto regionale Mense bio Aiab che capitalizza l’esperienza pioniera in Italia dello sportello mense bio – una legge in tal senso esiste dal 2002. Andrebbe rinnovata. Anche se stiamo registrando un rallentamento del settore perché i comuni non hanno i soldi e il prodotto bio è più costoso, ho fiducia si possa crescere ancora. In Emilia-Romagna il 25% dei comuni, tra cui i più grandi, come Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, hanno mense Bio al 100%; il 20% usa il 60% di prodotti certificati mentre circa il 40% ha appena iniziato ad usare alcune referenze optando per quelle che hanno un differenziale di prezzo più basso rispetto al convenzionale come la pasta o il sugo. Mentre per l’ortofrutta il rincaro può arrivare anche al 25%».