Quanto pesano le certificazioni nel mondo dell’uva da tavola italiana? Può un prodotto che è già largamente apprezzato anche sui mercati esteri creare ulteriore valore per la filiera esaltando la provenienza da questo o quel territorio o l’esistenza di uno specifico disciplinare? In Italia le uve da tavola certificate Igp sono tre, quella di Puglia, che ha il suo epicentro nell’areale di Noicàttaro, fuori Bari, e quelle siciliane di Mazzarone e di Canicattì.
Non a caso Puglia e Sicilia sono anche le locomotive che trainano la produzione di uva da tavola in Italia, con oltre il 60% dei volumi prodotti che lascia veramente le briciole alle altre regioni come Basilicata, Campania, Calabria ed Emilia-Romagna. Ma non tutte le Igp si comportano alla stessa maniera, né tutte le aziende produttrici: spesso esigenze di mercato spingono maggiormente le varietà senza semi prodotte su licenza di importanti breeders, mentre le varietà tradizionali rischiano di rimanere al palo o sugli scaffali dei punti vendita.
La Grande Bellezza italiana crede nelle Igp
Tuttavia negli ultimi anni un numero sempre maggiore di addetti ai lavori sta recuperando fiducia nelle uve storiche italiane e nelle certificazioni territoriali: “Quello delle Igp –spiega Leonardo Odorizzi, amministratore della Odorizzi srl e socio fondatore de La Grande Bellezza Italiana– è un percorso importante anche grazie alla ricostituzione del Consorzio di Tutela dell’Uva da Tavola di Puglia Igp, la cui azione si era offuscata per l’invasione selle varietà seedless. Quando si è iniziato a ragionare su questo percorso abbiamo capito che il consumatore è pronto a recepire questo tipo di messaggio perché cerca una qualità garantita e certificata all’origine. Purtroppo in Italia questo processo è iniziato solo recentemente mentre per esempio all’estero i consumatori locali hanno spesso già ben presente il valore che si sviluppa dietro a una certificazione. Per noi l’uva Igp è un prodotto pesante”.
Non tutte le Igp hanno lo stesso appeal, cosa dicono i consorzi
Alcuni consorzi di tutela stanno quindi spingendo maggiormente su una narrazione che faccia capire al pubblico l’importanza, anche a costo di ritrovarsi con prezzi un po’ più alti della media, di avere un prodotto garantito e certificato, sicuro e rintracciabile perché collegato a una filiera che impegna tutti gli attori di un determinato areale produttivo. “Spesso le aziende –sottolinea Michele Laporta, presidente del Consorzio di Tutela Uva da Tavola di Puglia Igp– non comprendono che il bollino dell’Igp è un plus che apporta valore anziché gettare ombra sull’azienda produttrice o provocare un rialzo dei prezzi al consumo. I consumatori riconoscono il bollino come un’opportunità che va sfruttata perché il prodotto sia riconoscibile. Dov’è il problema allora? È a monte, nella filiera, altrimenti oltre il 50% dei produttori farebbe parte delle Igp, e sappiamo che non è così. In Italia manca la consapevolezza nell’attribuire valore alle proprie produzioni e invece dobbiamo recuperare l’orgoglio per ciò che facciamo e certifichiamo”.
Diversa è la situazione in Sicilia, dove le varietà tradizionali hanno mantenuto superfici importanti nonostante l’avvento di quelle senza semi. Eppure anche in questo caso si fatica a fare comprendere il valore intrinseco di un prodotto certificato: “La nostra uva –spiega Marsello Lo Sardo, presidente del Consorzio Uva da Tavola di Canicattì Igp– è poco apprezzata dalla gdo e la richiesta sul mercato rispetto ai marchi tradizionali è debole. Noi produciamo essenzialmente varietà tradizionali come Regina e Red Globe, in un areale dalle caratteristiche pedoclimatiche uniche, ciononostante fatichiamo a comunicare il valore che scaturisce dalla nostra Igp al punto che stiamo lavorando con il Ministero per operare un aggiornamento del disciplinare”.
Il pubblico apprezza le Igp, ma le varietà tradizionali stentano
E quindi alla fine qual è la morale? Probabilmente che il pubblico apprezza le uve certificate Igp ma alle varietà tradizionali, che sono la spina dorsale dei disciplinari, preferisce quelle registrate e senza semi. Allora non sarebbe una soluzione includere nuove varietà nei disciplinari Igp in modo da ampliare il bacino di potenziali consumatori?
“Bisogna certificare di più –conclude Odorizzi– perché il mercato c’è, sia nella gdo italiana che all’estero. I consorzi devono lavorare di più e meglio sulle narrazioni perché non sempre in un areale produttivamente forte c’è un’Igp, contano prima di tutto la qualità, il territorio, finanche i volumi. L’Igp deve essere innanzitutto sinonimo di qualità, se lo è può venire venduta anche a un prezzo un po’ più alto del normale e si venderà comunque”.