Il Green Deal impone sempre maggiori responsabilità alla catena di fornitura in termini di sostenibilità ambientale. Anche perché poi tocca alle grandi aziende pubblicare i report che raccontano, attraverso i dati, i risultati sui famosi tre Pilastri. Ecco allora che anche le Op si muovono in questa direzione. Un esempio arriva da Terramore che produce soprattutto baby leaf nella Piana del Sele. L’Organizzazione di produttori ha avviato un progetto di studio sull’Analisi comparativa del ciclo di vita (Lca) tra due sistemi di produzione agricola, biologico e convenzionale. Il focus sulla rucola, uno dei prodotti di punta. Chiediamo al presidente, Carmine Papace, di spiegarci il significato di questa iniziativa.
Conosciamo meglio la Op, innanzitutto: quali sono i suoi numeri?
Terramore è una cooperativa di 40 soci, quasi totalmente operante nella Piana del Sele. La superficie coltivata è di quasi 450 ettari, di cui circa 250 di serre e il resto in pieno campo. Oltre alle verdure a foglia, dal primo gennaio 2023 abbiamo anche un nuovo socio che produce prettamente limoni, che provengono dalla Costiera Amalfitana, dalla Calabria e dalla Sicilia.
L’Op produce a proprio marchio e anche per la pl?
Con il nostro marchio arriviamo nei supermercati con i limoni, mentre con le verdure a foglia lavoriamo prevalentemente per le industrie di trasformazione di prima e quarta gamma. Da qualche anno stiamo anche facendo dell’imbustato non lavato tal quale, con ovviamente maggiore shelf-life. Di quello che produciamo due terzi va all’estero.
Perché uno studio sul ciclo di vita per le due produzioni, convenzionale e bio, sulla rucola?
Sul mercato c’è maggiore attenzione alla sostenibilità e abbiamo deciso di misurarla, chiedendoci quanto il bio possa essere meno impattante rispetto al convenzionale. Lo studio è finanziato dall’Op ma abbiamo un programma operativo annuale che dà dei fondi Ue all’Organizzazione e che noi sfruttiamo.
Quanto durerà l’analisi e quando si avranno i risultati definitivi? Abbiamo già dei dati preliminari?
L’analisi durerà tre anni, abbiamo concluso la prima annualità. Siamo seguiti da un ente tecnico, il Crea di Pontecagnano Faiano, e dai nostri agronomi. I dati preliminari dicono sostanzialmente che il risparmio in termini di impatto ambientale, considerate le varie voci, è di circa il 25% del biologico rispetto al convenzionale.
Sui fattori critici, pesticidi, fertilizzanti, irrigazione, consumo energetico e gas serra, dove pende la bilancia?
Ci sono impatti ovviamente similari: per esempio la struttura, la preparazione del terreno, la raccolta. Altre attività, invece, sono più impattanti sull’integrato: per esempio i concimi, che non si possono utilizzare in biologico (dove utilizziamo compost proveniente dal nostro impianto di compostaggio), gli antiparassitari. Sull’acqua invece il vantaggio è leggermente per il biologico per l’utilizzo del compost. Idem per il discorso energetico.
In base ai risultati finali come verrà orientata poi la produzione?
C’è l’idea di capire dove esattamente avvengono i maggiori impatti per poi adeguarsi. Ci sono per esempio attività che dal bio possono essere trasferite anche nel convenzionale. Per esempio nella gestione delle concimazione con prodotti organici. Lo stesso sugli antiparassitari non di sintesi. Il secondo obiettivo è poi di abbattere gli impatti per poi presentarsi al cliente con prodotti più sostenibili sulla base di numeri. Faremo, alla fine dello studio, una comunicazione ai media e una convention con i soci e stakeholder.
Quanto cresce la richiesta del bio da parte dell’industria?
Oggi il bio incide per il 40% della nostra superficie coltivata e per il 30-35% del fatturato dell’Op. Ha avuto una flessione nel periodo Covid, ma ora è in ripresa e sta tornando ai livelli pre-pandemia.